Pubblichiamo una riflessione di un sacerdote sulla Comunità di S.Egidio, spero che abbiamo chiarito che noi siamo favorevoli per ogni forma di associazionismo sia laico che cattolico , qualche aderente ci ha bacchettato dicendoci : “..prego non siamo un’associazione ma bensì una Comunità”. Compresa la grande differenza, sicuramente un conto è l’associazione della bocciofila un conto è far parte di una comunità di credenti, a questo proposito vorremmo dire che forse i bisognosi , gli indigenti non guardano le sigle , ma guardano chi li aiuta e chi li conforta , forse il lato che a qualcuno di noi non piace , è il lato politico della Comunità , intendiamoci non il colore, ma la politica che la Comunità ha svolto in Italia e a Roma , un potere politico, tra i poteri politici, chiuso il problema il nostro è solo un punto di vista , ben venga la Comunità di Sant’Egidio per il bene dei poveri e le persone bisognose. A ulteriore testimonianza, del nostro modo di fare informazione, oltre la lettera del sacerdote , pubblichiamo un articolo del Corriere della Sera al riguardo dei sottopassi.
Lettera ricevuta.
Ho visto quanto avete scritto a proposito di quei due poveretti morti in un incendio in un sottopassaggio non lontano da Porta Pia; permettetemi di dirvi che siete attenti a quanto succede di tristissimo nella nostra città a causa dell’abbandono in cui versano centinaia e centinaia di senza tetto avvolti in una povertà devastante; fate bene a seguire con attenzione quanto di doloroso accade per le strade della nostra amata città; tuttavia permettetemi anche di osservare che a me sembra che non siate stati bene informati sulla molteplice attività della Comunità di Sant’Egidio, allorché si sostiene che essa sia assente dalla zona in cui è avvenuta la tragedia; vi assicuro, e ve lo dice una persona, che è anche sacerdote, ormai da anni impegnato con gli amici di Sant’Egidio, che ogni settimana, più volte, la Comunità passa in quei luoghi offrendo da mangiare e amicizia. Qualche volta, come volontario, ho avuto la possibilità di passarvi anch’io. Ed è comunque straordinaria la presenza del mondo cattolico romano in mezzo ai poveri. Si può fare di più? Certo, si può sempre migliorare! E con il contributo di tutti!
Grazie.
Con i più cordiali saluti, P. Vincenzo Lai
I SOTTOPASSI E L’IPOCRISIA
La scelta, alla fine, è stata semplice: girarsi dall’altra parte e tirare avanti come se nulla fosse successo. C’è qualcosa di inverosimile e di osceno nell’atteggiamento della nostra città a quasi una settimana di distanza dalla morte dei due ragazzi somali carbonizzati nel sottopassaggio di corso Italia, a due passi dalle vetrine di via Veneto. Inverosimile perché, come hanno documentato per giorni I cronisti del Corriere, niente è cambiato, nemmeno per banali ragioni di decenza o ordine pubblico: due o tre rampe di scale bastano ancora oggi per entrare nel sottosuolo dei dannati, in quella specie di mondo di sotto appena sfiorato dalle ruote delle nostre macchine; cartoni, asciugamani, lettini, coperte, stufette, speranze, fame e freddo, terra e acqua, lo stesso accampamento di sempre per decine, centinaia di naufraghi sociali, etichettati sotto il marchio di «invisibili».
Osceno perché questi invisibili sono vittime di una nostra ipocrisia collettiva che affonda in un mito letterario: quello del barbone libero e selvaggio che non vuole, badate bene, non vuole essere salvato, del giovane straniero on the road o del marginale eternamente alla macchia. Stupidaggini: provateci voi, quando il termometro scende a zero, a rifiutare fieramente un rifugio in nome della libertà. Ancora pochi giorni fa, dopo la morte dei due ragazzi somali, il sindaco Alemanno si è fatto interprete di questo sentire comune che, a nostro avviso, non ci onora granché: «Noi sgombriamo le aree ma ci ritornano per loro scelta, rifiutando i luoghi di assistenza», ha spiegato (citiamo l’Ansa, salvo smentita). Poi ha ricordato una proposta d’ordinanza di Giordano Tredicine (teorico della non integrazione dei rom) per il ricovero coatto dei senza fissa dimora, rammaricandosi perché la legge attuale ritiene una violazione dei diritti della persona «fare ricoveri senza il consenso» (del ricoverato, ndr). Può anche darsi che ci sia del vero. Ma noi temiamo che il problema stia proprio nell’impostazione marziale della questione.
Le parole svelano le nostre anime: il ricovero coatto evoca cattura e deportazione, serrature e furgoni cellulari, insomma un blitz, un Cpt al posto di una casa famiglia, un’idea di cristianesimo senza Gesù, di identità senza misericordia, di spada al posto della croce, che è poi il rovesciamento diabolico del messaggio del Redentore ed è quello che alla fine offriamo a tanti disperati stranieri. Lontani da un’assistenza fatta di piccoli passi, gesti lenti, parole sommesse, dal senso di un recupero. Cinquemila anime perse vagano così per Roma e non basta la fatica meritoria di volontari, religiosi, associazioni come Sant’Egidio, degli stessi operatori comunali. Ma se tutto questo non basta, la risposta non sta in una retata, sta piuttosto in una rete: di protezione. Quando capiremo che non si tratta di dare la caccia a cinquemila fuorilegge ma di aiutare cinquemila esseri umani, quelli smetteranno di scappare. Una metropoli come la nostra può ben assorbire cinquemila persone senza accalappiarle… se e quando accadrà, prima dei sottopassi avremo liberato le nostre coscienze.
Goffredo Buccini – Corriere della Sera Roma – Roma.corriere.it